GOODBYE KEYNES di F. Reviglio ovvero L'incubo di un contabile



A fine giugno mi è capitato di sentire in diretta la telefonata di un ascoltatore di Prima Pagina, su Radio 3, che contestava il recupero in mare, appena avvenuto, dei corpi di settecento migranti naufragati il 18 aprile 2015. Per l'ascoltatore si sarebbe trattato di uno spreco di risorse pubbliche. A costui altri se ne sono aggiunti via sms. Eccone un sms, ad esempio: “Non ci sono soldi x sanità pensioni manutenzione strade incentivi allo sviluppo riduzione del debito. Ma ci beiamo di aver recuperato il relitto di un barcone naufragato nelle acque libiche. Quanto è costata questa scellerata scelta demagogica? M.chiara”.
I giornalisti di Radio 3, per fortuna, hanno sostenuto che il recupero è stato un atto doveroso.

Come siamo giunti a ragionare in maniera così disumana? L'abbiamo fatto accogliendo, secondo le parole di John Maynard Keynes, “quel criterio che si può chiamare brevemente dei risultati finanziari, quale segno della opportunità di una azione qualsiasi, di iniziativa privata o collettiva. Tutta la condotta della vita (...) ridotta a una specie di parodia dell’incubo di un contabile.

In parole povere, abbiamo adottato i risultati finanziari come principale criterio di giudizio delle nostre azioni. E l'abbiamo fatto sotto la guida di rispettabilissime e acute personalità come quella di Franco Reviglio (foto sotto). Un tecnico illustre, ma la cui visione della società pare davvero l'incubo di un contabile. Il suo saggio Goodbye Keynes, sottotitolato Le riforme per tornare a crescere. Meno debito, più lavoro, pieno di indicazioni apparentemente utili, rende evidente la distanza tra un uomo come Keynes, capace di una visione generale, e un tecnico limitato alla visione angusta di una calcolatrice.



Ho acquistato Goodbye Keynes, pubblicato nel 2010, attirato dal titolo. Sono tendenzialmente sostenitore di politiche economiche keynesiane (o neo-keynesiane, che dir si voglia) e stimo Keynes come intellettuale, per cui trovo allettanti le analisi e le idee di chi si oppone alle politiche economiche a lui ispirate.

Franco Reviglio è professore emerito di Scienza delle Finanze all'Università di Torino, è stato ministro delle Finanze all'inizio degli anni Ottanta, poi presidente dell'Eni. Alla sua scuola è cresciuto un gruppo di giovani economisti e manager chiamati addirittura i "Reviglio boys": Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Mario Baldassarri, Franco Bernabè.

Reviglio è un bravo contabile, di buone intenzioni e che sa scrivere con una certa bonomia, ma la sua mancanza di prospettiva lo lascia ingabbiato nei pregiudizi dell'ortodossia economica in auge. Questo breve saggio è scritto con chiarezza, benché la messe di dati e di rimandi tecnici non lo renda entusiasmante. Il pregio di Goodby Keynes però è quello di mostrare come ragiona chi affronta le tematiche economico-sociali adottando esclusivamente, o quasi, quei criteri che Keynes aveva definito “una specie di parodia dell’incubo di un contabile.

Reviglio presenta la ben nota, traballante, situazione economica dell'Italia e propone una serie di misure che ritiene debbano risultare a somma zero per evitare di appesantire ulteriormente il debito pubblico (questo nel 2010: nel frattempo è aumentato).
La ricetta di Reviglio, piuttosto vaga in realtà, è la solita già strasentita negli ultimi anni: tagli agli sprechi della pubblica amministrazione, riduzione di imposte alle aziende, nuove privatizzazioni, recupero di fondi da lotta all'evasione fiscale.
Il professore fa i conti, i conti non tornano, allora taglia dove può e distribuisce dove riesce. A differenza di Keynes pare non comprendere che così non crea alcuna ricchezza e tutto non può che rimanere come l'ha trovato se non peggio. D'altra parte Reviglio ritiene dannosa l'austerità, come se dalla sua ricetta potesse conseguire qualcosa di diverso.
Alcuni intenti di Reviglio sono lodevoli e condivisibili, qualcuno è piuttosto ambiguo, qualcun altro assai discutibile. Come in decine di altri libri scritti da personaggi organici alle istituzioni.


Quel che però a me interessava di questa lettura è il motivo per cui bisognerebbe dire addio a Keynes (il signore coi baffi, sopra). Secondo Reviglio per la ragione che l'attuale impasse economica è dovuta a fattori strutturali, mentre le misure cosiddette espansive, di stampo keynesiano, incidono solo su fattori ciclici, cioè contingenti. Un tale travisamento Keynes non lo meritava affatto. Reviglio dovrebbe sapere che le strutture istituzionali a cui faceva capo la teoria keynesiana sono stati disattivate (le Banche Centrali statali, in primis) e che il contesto economico-giuridico attuale è di matrice liberista (banche miste, libera circolazione delle merci, delocalizzazioni etc.). Affermare che i provvedimenti economici di tipo keynesiano non incidono strutturalmente non è intellettualmente onesto. Inciderebbero, forse, se ci ci fossero i presupposti per farlo. Reviglio invece evita di spiegare che oggi è impossibile impiegare misure economiche di stampo keynesiano perché è da quasi quarant'anni che si attuano riforme dirette proprio a impedire che tali misure si possano adoperare. Ad esempio l'art. 104 del Trattato di Maastricht recita che “È vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della BCE o da parte delle Banche centrali degli Stati membri... alle amministrazioni statali”, come sono vietati anche “l'acquisto diretto... di titoli di debito [pubblico] da parte della BCE o delle Banche centrali nazionali”. Ovvero in UE non si può creare moneta. Gli Stati possono attuare misure espansive, ma solo contraendo debiti coi privati. Debiti che poi dovranno restituire con gli interessi. Dove può stare Keynes in tutto ciò? Ai suoi tempi non esistevano norme simili. Come non sono esistite per molti dei decenni successivi.

In sostanza Reviglio propone qualche misura economica che serve più che altro a consolidare lo status quo, laddove occorrono cambiamenti che oggi, purtroppo, risultano radicali. E che tuttavia occorrono, senza indugio.

Quando poi l'autore consiglia di agire su elementi strutturali, ne menziona solo alcuni ben precisi, per lo più di natura periferica rispetto alle istituzioni centrali statali e comunitarie. Nessun cambiamento di paradigma, nessuna autentica riforma sistemica viene invocata da Reviglio, benché da più parti si continui a ripetere che la crisi che stiamo vivendo sia per l'appunto una crisi di sistema. L'assetto monetario pare un Moloch intoccabile. I mercati invece paiono una divinità calata dal cielo a cui bisogna inevitabilmente conformare le proprie scelte. Eppure Reviglio ha una certa età, quindi sa benissimo che le cose non sono sempre state così, che le regole a suo tempo si è pensato di modificarle in senso liberista, a vantaggio di qualcuno e non a discapito di nessuno.

Il neoliberismo, come ideologia e soprattutto come metodo di gestione dei rapporti sociali, oggi la fa da padrone. Spadroneggia così tanto che nemmeno siamo più in grado di accorgercene. Si dice che non possiamo farci niente, è l'economia, sono i numeri, a volere che le cose vadano in un certo modo. Oppure si dice che non si può agire altrimenti perché i mercati ci puniranno (!!!) se non agiremo in un certo modo. Insomma, ci viene insegnato da Reviglio e da tanti altri illustri personaggi che l'ambito economico è trascendente, non può essere toccato dalle nostre scelte e che nemmeno dovremmo pensare di farlo perché ciò è di per sé sbagliato.

Certo che se qualche decennio or sono Reagan o la Thatcher fossero stati accondiscendenti come l'attuale opinione pubblica o le forze sociali oggi in campo, forse non staremmo neppure discutendo di liberismo. Va chiarito che il mai del tutto sopito dibattito, o scontro, tra liberisti e keynesiani (è una divisione sommaria, ovviamente), consiste fondamentalmente in due differenti modi di intendere e di gestire i rapporti umani. Sapeva questo Keynes quando evidenziava la mancanza di buon senso di chi ragiona secondo criteri contabili. Lo sapeva Bob Kennedy, che pronunciò il famoso discorso sul PIL (“Il nostro Pil... comprende anche l'inquinamento dell'aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana... Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari... Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”). Il fatto è che il nostro punto di vista precede il discorso economico. I criteri di gestione economica seguono, e non precedono, la decisione di ricercare o meno il benessere collettivo, di tentare o meno di sfruttare al meglio le risorse (anche umane) disponibili oppure di lasciare che decidano gli operatori di mercato, che viga la legge del più forte, di credere che qualsiasi tentativo è inutile, tanto homo homini lupus. E non mi si venga a dire che il bene di tutti impatta necessariamente contro la libertà di ciascuno. Credo basti un minimo di ricerca storica per accertarsi che il welfare state ha contribuito a migliorare la vita di molti senza con ciò negare libertà e diritti a chicchessia.

Dovremmo, semplicemente, avere il coraggio e l'intelligenza di accettare la sfida di migliorare la vita di tutti. E smetterla di ascoltare come oro colato le opinioni dei contabili.

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