I fratelli Karamazov di F. Dostoevskij ovvero Quel che Fëdor aveva da dire

(Non so quanto sia cosa saggia dedicare il primo post di un blog al proprio romanzo preferito. Ad ogni modo...)



Credo che I fratelli Karamazov in questo momento della mia vita sia il mio romanzo preferito. E questo momento della mia vita dura da più di quindici anni.


Poche considerazioni da fare su un libro largamente incensato e analizzato.

L'ho riletto fra dicembre e febbraio per la quarta volta. La prima volta fu nel lontano 1993.
La prima è che la quarta lettura del libro è stata la migliore. Certo, ogni vero classico “non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, secondo la definizione di Calvino, ma leggere un libro come questo – che ha fra le sue caratteristiche salienti una profondità di pensiero costante, debordante, e la presenza di riflessioni filosofico-teologiche – a venti, a trenta o a quarant'anni può dare luogo a esiti differenti. Senza dubbio l'accrescersi delle esperienze e un più corposo bagaglio culturale permettono di addentrarsi più compiutamente nella vastità de I fratelli Karamazov. Ottimo a venti, inestimabile a quaranta. Spero quindi di poter leggere questo libro almeno un'altra volta.

La scusa per la quarta lettura è stata la nuova traduzione pubblicata da Feltrinelli due anni fa. In precedenza avevo letto la traduzione degli anni Trenta-Quaranta pubblicata da Einaudi. Un po' datata. Il volume Einaudi esteticamente è più accattivante, ma la nuova traduzione di Serena Prina è più scorrevole e mi pare più accurata.
Non posseggo gli strumenti per sapere quanto la trasposizione più recente sia più o meno fedele all'originale in lingua russa, ma sono certo che qualcosa, in ogni caso, vada perduto. Il russo di Dostoevskij risale al XIX Secolo, mentre la traduzione del 2014, per quanto scrupolosa, non può che attualizzarne, almeno in parte, il linguaggio. Consapevolmente o meno. D'altra parte, nello stesso inevitabile inconveniente incorreranno le traduzioni contemporanee di Verga o di Manzoni...

Ultima considerazione: Gianlorenzo Pacini, nella sua introduzione a L'idiota (qui), ricorda come secondo Tolstoj Dostoevskij scrivesse in maniera orribile e di proposito, per affettazione. Tolstoj non è stato l'unico a sostenerlo, e, fino a un certo punto, si può persino concordare con questo giudizio.
Dostoevskij non era uno scrittore raffinato. Le circostanze raramente gli avrebbero permesso di esserlo, dato che spesso scriveva con scadenze serrate, in vista della pubblicazione su periodici, e sotto la pressione di una vita segnata dalla malattia, da varie tensioni e dalle ristrettezze economiche (tranne che a fine carriera). Ciononostante, o proprio grazie a queste contingenze, la sua scrittura punta diretta alla “polpa” della vita. I suoi personaggi perdono la bussola, sfigurano in società, si denudano di fronte al lettore, sono prolissi, si fanno prendere dalla foga, compiono azioni senza costrutto, paiono incompiuti, eppure, con ciò, rendono Dostoevskij il più attuale fra i narratori del XIX Secolo; inoltre fanno dimenticare certe ripetizioni e alcuni periodi poco scorrevoli. Per Tolstoj “tutto nella vita è più semplice, più comprensibile” dei personaggi di Dostoevskij. Tuttavia – credo ora di ripetere un luogo comune, ma che coglie nel segno – la verità che cercava Dostoevskij non passava per l'imitazione o l'esatta ricostruzione della realtà, per lui urgente era dire quello che aveva da dire. E che oggi non ha ancora finito di dire.

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