VIZIO DI FORMA di Thomas Pynchon ovvero Quando un surfista non si tuffa in mare
Vizio di forma, il settimo romanzo di Thomas Pynchon, uscito nel 2009, è un noir intricato un po' in stile Chandler aggiornato agli anni '70, dove si perde quasi subito il filo dell'indagine portata avanti dall'investigatore privato Doc Sportello. L'intreccio passa quasi in secondo piano per lasciare spazio al mood del racconto. L'investigatore hippie Doc Sportello non può non ricordare Drugo Lebowsky: stesso tipo di indagine sconclusionata e stesso contesto, anche se in un periodo diverso.
Pynchon scrive in maniera pirotecnica e anche qui i fuochi d'artificio non mancano. In Vizio di forma l'autore statunitense è capace di offrire letteralmente a ogni pagina almeno una trovata o una battuta che lascia ammirati per l'ironia e la capacità di dissacrare i costumi americani. Nulla a che vedere con la complessità e l'osticità dei romanzi precedenti (tranne Vineland). Nella media di Pynchon Vizio di forma è una storia piuttosto semplice e lineare, una lunga e riuscita sequela di episodi e personaggi grotteschi immersi nella cultura pop di inizio anni Settanta. Per chi cerca raffinato intrattenimento, questo è l'ideale.Il versante postmoderno in Vizio di forma - come nelle cose migliori di Pynchon – non risulta arroccato sulla torre d'avorio delle sue sue elucubrazioni narrative perché con immaginifica ironia porta a estreme e divertenti conseguenze la logica della nostra società pop-consumistica.
Non nutro eccessiva simpatia per il postmodernismo o l'avant-pop o come altro si vuole definire quella corrente letteraria tendenzialmente volta a riflettere o a rielaborare i prodotti sociali, l'immaginario e la letteratura della civiltà occidentale anziché concentrarsi sulla realtà e sui dubbi, sugli interrogativi e, talvolta, sulle risposte che vi sono sottese.
Spiega Wikipedia che “certamente il citazionismo, l'imitazione e il pastiche sono tratti caratteristici della letteratura postmoderna (...), quindi è facile ritrovare negli scrittori postmoderni deliberate imitazioni (...) dello stile di scrittori nel passato”. Ecco, secondo me i 'segni particolari' del postmoderno letterario, cioè citazioni, imitazioni e pastiche ed esercizi di stile vari, non forniscono grandi contributi alla letteratura né arricchiscono granché le nostre misere vite.
Il postmoderno elimina dall'orizzonte culturale e letterario la verità intesa come risultante o intuizione univoca. Questo comunque mi sembra più un effetto generale della temperie culturale del secolo scorso che un apporto specifico delle correnti postmoderne. Ad ogni modo, secondo quanto scrive Thomas Pynchon in Mason & Dixon, tratto sempre da Wikipedia, “non c'è niente di più temibile di una versione unica di come stanno le cose nel mondo o come sono andate le cose nella storia (e con ciò Pynchon allude evidentemente al pensiero unico). La letteratura che lui pratica, quella postmoderna, cerca invece di dare voce a più versioni della storia, in modo che ci sia possibilità di dialogo, di dibattito, di confronto; questo lascia spazio anche alla verità dei deboli, degli sfruttati, degli sconfitti (quelli che Pynchon ha definito i 'preteriti')”. Lodevole, ma Pynchon non è il primo né l'unico né, forse, il più geniale a offrire questo genere di visione letteraria.
V, primo romanzo di Pynchon, è considerato un suo capolavoro. Io lo lasciai a metà qualche anno fa perché mi aveva rotto le scatole e non mi trasmetteva nulla. Mi ero già tolto la curiosità di saggiare la sua eccezionale capacità, tipicamente postmoderna, di rivestire le sue storie di mille altre storie e personaggi fino a creare, talvolta, un labirinto narrativo che ci si può pregiare di aver letto pur senza aver afferrato tutto, spesso perché la lettura diventa un gioco in cui si misurano le capacità di assimilazione e di concentrazione del lettore, un gioco senz'altro ben realizzato, non sempre arido, spesso coinvolgente. Pynchon, similmente a David Foster Wallace (di cui ho scritto qui e qui) desta ammirazione, ma può irritare la futilità e l'aridità della raffinatissima sfida rappresentata dalle pagine dei suoi libri. Non è comunque il caso di Vizio di forma, molto più leggibile della sua media e più accattivante del solito.
Pynchon nei suoi libri crea contesti e personaggi viventi in ben definite realtà storiche. La ricostruzione storica è accurata, ma la realtà che Pynchon riproduce sullo sfondo reale è sempre mediata dalla letteratura che l'ha preceduto, dalla coscienza che le nostre vite sono invase da prodotti industriali e/o culturali e scorrono immerse in tutta una serie di narrazioni. L'opera di Pynchon rappresenta per certi versi una complessa riflessione sui filtri mediatici attraverso i quali ci perviene la realtà e sulla realtà che tali filtri ci restituiscono. D'altronde dispositivi e prodotti mediatici, mai come oggi, sono la nostra realtà.
Il dubbio che tuttavia suscita la narrativa della scrittore americano è questo: Pynchon è abilissimo a surfare sulla cresta dell'onda della Storia, della marea di storie che compone il flusso delle nostre vite, è in grado di inventare, rielaborare e desacralizzare come pochi, eppure, benché parta da una evidente istanza critica e benché l'esito formale della sua narrativa sia un formidabile, rifratto, specchio dello zeitgeist, in fin dei conti diviene egli stesso raffinatissimo intrattenimento e, se non diviene parte organica di quanto sta criticando, si limita a rimanere abilmente in equilibrio sul suo surf in superficie, senza tuffarsi a guardare quanto è profondo il mare o cosa ci sta sotto. Si ferma, per così dire, ai primi strati della cipolla.
Detto ciò, mi piace pensare che Pynchon, qualora dovesse mai leggere queste righe, se ne strafregherebbe. Non perché come il Marchese del Grillo ritenga che “io so' io e voi non siete un cazzo”, bensì per continuare, comodamente rintanato e riverito, a scrivere storie infischiandosene di quello che poi certi critici o certi blogger ci appiccicano sopra, genio o non genio che sia.
Forse per questo preferisce l'anonimato: per non portare allo scoperto l'arcana semplicità del suo intento artistico.
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